L'Ottocento

 

Se le guerre napoleoniche avevano dato a Gradisca l'opportunità di ricoprire in una certa misura un ruolo strategico, con la nuo­va situazione politica questo non aveva più senso. Malgrado persistessero delle line di confine, esse in realtà non spezzavano l'u­nità dell'lmpero e la piazzaforte eretta a guardia dell'lsonzo non poteva più svolge­re un ruolo attivo nella difesa territoriale.

 

Dovendo utilizzare le sue ampie strutture il governo pensò di destinarle a carcere, cosicché, nel 1815 il Castello, visi­tato in quell'anno dall'lmperatore France­sco I, divenne prigione di Stato.

 

Cominciarono poco più avanti consistenti lavori di adattamento dell'area castellana alle particolari esigenze che tale destinazio­ne imponeva. Essi si protrassero per decen­ni, fino ad oltre la metà del secolo, e modi­ficarono a tal punto il complesso cinque­centesco del Castello da rendere difficil­mente riconoscibili le parti originarie; di queste fu conservata intatta solo la robusta cinta muraria, mentre l'antico palazzo del Capitano, già sopraelevato nel '700, si tra­sformò in un grandioso, ingombrante «ca­sermone» mediante l'aggiunta, in senso longitudinale, prima solo di alcuni vani, poi di un corpo equivalente a quello primitivo. Dopo il 1868, infatti, il penitenziario, che inizialmente era destinato a detenuti con­dannati a pene non inferiori a dieci anni, fu utilizzato anche per condanne minori e arrivò ad ospitare fino a 700 prigionieri.

 

Nei primi tempi, invece, a Gradisca erano inviati specialmente i detenuti politici, tra cui alcuni nomi famosi legati alle società segrete di cospiratori antiaustriaci, Giorgio Pallavicino, Federico Confalonieri, Pietro Borsieri ed altri che, provenienti dallo Spiel­berg, ed avendo ottenuto la commutazione della pena nella deportazione in America, sostavano a Gradisca in attesa di imbarcar­si nel porto di Trieste. Questi eventi risali­vano agli anni intorno al 1835. Per ta­li vicende il nome di Gradisca fu associato, nel secolo XIX, agli strumenti più feroci del­la repressione austriaca, mentre le sue anti­che glorie furono dimenticate.

 

In realtà non sembra che la vita gradiscana di quel tempo fosse molto condizionata dal­la presenza dell'ergastolo e ci appare inve­ce piuttosto ricca sotto ogni punto di vista, ma specialmente per quanto riguarda lo svi­luppo culturale, come dimostra l'apertura di scuole superiori, I'intensa attività teatrale e musicale, la presenza di un discreto nume­ro di intellettuali.

 

Meno viva rimase, invece, la coscienza del­I'identità storica della città, forse anche per l'isolamento fisico dell'antica «arx» dal cen­tro urbano, inesorabilmente preclusa, come era, alla comunità locale e massicciamente alterata rispetto alla forma originaria. Non era facile per i gradiscani riconoscere il proprio passato storico, veneto o austriaco che fosse, in un complesso di edifici unifor­mato dal giallo austriaco, reso ancor più lu­gubre dalle doppie sbarre alle finestre e chiuso da un incombente cancello di ferro sovrastato dalla scritta «K.K. Strafhausan­stalt» .

 

Effetto di ciò fu l'aspirazione sempre più diffusa ad eliminare la chiusura rappresentata dalle mura della città, che soffocavano l'espansione urbana e isolava­no la popolazione del centro da quella dei borghi e del territorio. La prima richiesta di autorizzazione ad abbattere le mura fu presentata al governo nel 1830, ma fu re­spinta. L'Ufficio Principale del Genio era del parere che la cinta di Gradisca servisse non soltanto alla migliore custodia dei detenu­ti, ma rappresentasse anche un «valore stra­tegico come testa di ponte sulla riva destra dell'lsonzo». Solo venticinque anni siù ter­di, e dopo molte insistenze da parte del Comune, venne concesso (con un decreto a firma del maresciallo Radetzky) I'abbatti­mento di un tratto delle mura e il livella­mento dei bastioni, a condizione che il ter­reno così ottenuto non venisse utilizzato per «la costruzione di fabbriche», ma ser­visse esclusivamente «al riordinamento in campi e giardini».

 

I lavori di demolizione intevessarono par­te del lato occidentale della fortezza, cioè il tratto compreso tra il Torrione della Cam­pana e la Porta d'ltalia e durarono parecchi anni, non senza che una parte della popo­lazione ne fosse profondamente rammari­cata. Nonostante venissero abbattuti solo 400 metri della cinta su un perimetro di circa 1.800), con la scomparsa di questo lato rivolto alla pianura, la città perdeva la sua immagine più nota di città murata, il prospetto verso la campagna che la carat­terizzava la secoli e la rendeva particolare e riconoscibile.

 

Se è vero che la maggior parte delle mura veniva conservata, questa era però resa quasi invisibile sia dal fatto che era rivol­ta alla zona deserta del fiume, sia dall'in­tegrazione ormai avvenuta con diverse pro­prietà private che ad essa si erano addos­sate.

 

Al posto del tratto demolito sorsero poco tempo dopo due eleganti villini (uno dei quali costruito curiosamente addosso al tor­rione della Campana) mentre tutta l'area ricavata dal livellamento di bastioni e fos­se divenne un ampio piazzale (a lungo chiamato «Spianata») trasformato in segui­to in suggestivo parco come avevano pre­scritto le autorità austriache il nucleo urba­no restava così isolato da una «cintura» verde.

 

Questo sito è stato creato da Maria Masau Dan nell'ambito delle attività svolte tra il 2015 e il 2018 dal Comitato Eggenberg di Gradisca d'Isonzo per ricordare i 300 anni dalla fine della Contea principesca di Gradisca (1717) e costituisce la testimonianza di quelle attività. 

La pubblicazione non ha cessato di esistere dopo la celebrazione dell'anniversario ma mantiene l'obiettivo di diffondere la conoscenza della città e della sua storia non solo nel periodo in cui è stata capitale di una contea principesca (1647-1717) sotto il casato stiriano degli Eggenberg, ma anche prima e dopo.